Un pericolo per l’impero celeste

di Carlo Marincovich

Ai primi di giugno del 1907 cinque automobili si misero a sferragliare nelle strade polverose di Pechino. Due De Dion Bouton, una Spyker, una Contal e la potente Itala costruita su misura a Torino per il principe romano Scipione Borghese. Don Scipione aveva 35 anni ed era uno scavezzacollo per quei tempi cavaliere, alpinista, viaggiatore, cacciatore.

E automobilista, cioè un eroe del nuovo secolo. Borghese per scommessa era andato da Roma a Budapest sulle stradacce di allora. In tutta Europa impazzavano i raid a quattro ruote. Aristocratico come si poteva ancora esserlo a quei tempi, Borghese era un grande sportivo ma non dava troppa confidenza al prossimo. Durante la Pechino-Parigi, lui, Luigi Barzini e il meccanico Ettore Guizzardi si accamparono una sera nel deserto di Gobi. Tre uomini soli e stanchi sotto un’ immensa e struggente volta stellata.

Guizzardi, da fedele servitore, era andato a mangiare venti metri più in là per lasciare un po’ di privacy al suo padrone che cenò accovacciato per terra di fronte a Barzini. Don Scipione aprì una scatoletta di carne, prese la sua porzione, e poi, parlando al vento come se ci fossero cento ospiti presenti, disse Chi ne vuole si serva. Il povero Barzini in silenzio si servì. Barzini aveva 32 anni, dalla natìa Orvieto era stato catapultato a Londra dal Corriere della Sera come corrispondente per poi tornare a Milano come inviato speciale.

E fu una mattina del marzo 1907 che Luigi Albertini, direttore del Corriere, gli telefonò convocandolo immediatamente. Gli fece leggere il bando della gara lanciata dal giornale francese Le Matin e gli disse Parta immediatamente, c’ è un treno per Parigi stasera. Poi vada in America, attraversi il Pacifico e raggiunga Pechino strada facendo riceverà miei ordini. Obbediente come un militare, Barzini partì. Il primo di giugno alle sei di sera puntuale come una eclissi sbarcai alla stazione di Pechino scrisse nel suo libro sulla gara automobilistica più avventurosa di questo secolo. E a Pechino scoprì che le ci-ciò, vale a dire i carri a combustibile come i cinesi avevano soprannominato le automobili, erano molto mal viste.

Il consiglio dell’ Impero celeste riteneva addirittura fossero una diavoleria degli occidentali per conquistare il loro paese. Così i furbi cinesi per togliersi dai piedi questo pericolo mortale, fecero partire subito le cinque ci-ciò per l’ impossibile viaggio. Nonostante il baccano e i fumi che le cinque auto lanciavano nell’ aria, i cinesi non si stupirono affatto davanti a tali meraviglie della tecnologia. Eravamo guardati senza curiosità scrisse Barzini dopo la partenza da Pechino avvenuta il 10 giugno e senza ostilità. Lo spettacolo di una corsa di automobili lasciava i buoni pechinesi assolutamente indifferenti. Indifferenti ma collaborativi perché l’ Itala ebbe molto spesso bisogno di essere trainata a mano da legioni di pastori e contadini sulle strade di montagna.

Strade? Buon Dio, a guardare oggi le foto del libro di Barzini c’ è da sentirsi male. Neppure la Parigi-Dakar offre simili maledizioni. Borghese ebbe il suo bel daffare a guidare in tali condizioni. Ettore Guizzardi che da bambino era cresciuto fra le automobili di casa Borghese a Roma e a Frascati, stringeva i suoi bulloni. Barzini era alla perenne e affannosa ricerca di improbabili uffici telegrafici fra montagne e deserti. L’ Itala si ritrovò ben presto sola al comando della gara. La natura fu molto ostile con i miseri 45 cavalli di una macchina che pesava duemila chili. Ma fu ostile anche con la fibra dei tre italiani. La fine sembrò giunta quando su un ponticello di legno, simile a quelli che oggi affrontano gli avventurosi del Camel Trophy, l’ Itala col suo fardello sprofondò a muso in giù nel torrente.

Il buon Guizzardi la smontò pezzo per pezzo per poi rimontare tutto al di là del ponte. Dopo 16 mila chilometri, di cui 12 mila senza strade, la gloriosa auto simbolo di un’ Italia nuova proiettata nel futuro, arrivò a Parigi sotto l’ Arco di Trionfo. La macchina andò poi in America per un lungo giro di esibizioni. Al ritorno in patria, mentre scendeva dalla nave a Genova, cadde in mare. Fu ripescata e riportata allo stabilimento della Itala a Torino dove continuò a marciare come furgoncino di servizio dell’ azienda.

Quando, nel 1931 l’ Itala chiuse i battenti, assorbita dalla Fiat, il conte Biscaretti di Ruffia recuperò il cimelio che da allora è rimasto al museo dell’ automobile di Torino fino al 1986. Un giorno Ghidella disse Restauriamola e mandiamola a rifare quel viaggio, ma mi raccomando che tutto sia ricostruito con i materiali e le tecniche di allora. Facile a dirsi. Per rifare le canne dei cilindri i tecnici della Fiat hanno dovuto paradossalmente cercare dei macchinari che non lavorassero con troppa precisione. Fra la parete dei cilindri e i pistoni deve infatti rimanere un interstizio, delle asperità capaci di raccogliere l’ olio di lubrificazione. Allora usava così e questo spiega anche l’ enorme consumo di lubrificante, un chilo ogni cento chilometri.

Tutte le parti in legno dell’ Itala si rivelarono tarlate e sono state ricostruite. Per i cerchioni lamellati a raggi s’ è trovato un vecchio carradore in Emilia che col vapore ha piegato il legno per fare delle nuove ruote. La Pirelli per ricostruire gli enormi pneumatici ha rintracciato in Francia la macchina con cui essi erano stati fatti ottanta anni fa. I fanali a gas carburo della Carello sono stati rimessi in funzione. L’ ultimo, prezioso tocco, è stata la verniciatura con pitture a olio di lino fabbricate con la tecnica dei primi del secolo.

L’ Itala è ora a Pechino dove a Pasqua partirà per un nuovo viaggio. La Pechino-Parigi infatti torna per festeggiare il genio creativo italiano ma anche per celebrare con solennità i 40 anni della repubblica cinese. Il percorso non sarà lo stesso, ma non per questo è meno difficile. Da Pechino l’ Itala, accompagnata da Lancia, Alfa Romeo e Fiat, punterà verso sud ovest, toccherà Tibet, Pakistan, Iran e Unione Sovietica dove, a Mosca, tornerà sul percorso tradizionale.

la Repubblica – Sabato, 18 marzo 1989 – pagina 41

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