Un uomo troppo intelligente: Carlo Marincovich
Nevicava e faceva un freddo cane a Genova, la sera del 26 gennaio 1962. I pesanti pacchi, contenenti il numero zero della nuova rivista di nautica, erano chiusi con gerrette di fil di ferro che segavano le mani già semi assiderate. “Ciao”- disse una voce, e aggiunse – “Allora: io sono Carlo e lui è Vincenzo.” Finalmente li vedevo di persona dopo tante lettere e qualche telefonata. I due, assieme, avevano lasciato la decrepita e obsoleta “Italia sul mare”, dove anch’io scrivevo da qualche anno, per fondare una nuova testata più attuale, vivace e moderna (sia nel tipo di stampa che, soprattutto, nei contenuti). Qualcosa che voleva essere più consono alle esigenze di un nuovo mercato emergente e degli appassionati del mare. Sto parlando di 47 anni or sono: quasi mezzo secolo.
Fu così che conobbi Carlo Marincovich. Mi avevano chiesto di aiutare a “portar dentro” ai padiglioni della Fiera del Mare quei pacchi di numero “zero” della nuova pubblicazione. Il primo Salone di Genova si sarebbe inaugurato il giorno dopo e nessuna automobile poteva ormai più entrare nell’area espositiva: per questo il trasporto, dal parcheggio allo stand, doveva esser fatto a mano, visto che nessuno aveva pensato di trovare/recuperare un carrello. La faccenda, faticosa e “umida”, durò quasi un paio d’ore: alla fine, nonostante l’età, avevamo tutti i capelli bianchi. Di neve. Quando finalmente l’ultimo di quei “sedicesimo più copertina” fu al coperto, ci guardammo in faccia. Io avevo 21 anni e rotti. Lui, Carlo, cinque di più. Mi risultò simpatico. E dannatamente esperto.
Diventammo amici: non incominciava mai un discorso dicendo “Io…” ma era di una ferocia assoluta. Sempre. E, talvolta, anche per sostenere una causa persa come quando, per anni, in molti nell’ambiente si chiedevano e gli chiedevano se “dietro” a quella rivista non ci fossero i quattrini e gli interessi di un ben noto cantiere. Neppure con me si confessò mai finché non lasciò quella testata per crearne una nuova, libera da legami commerciali. In breve, e per definizione di Giampiero Baglietto, allora presidente Ucina, lui ed io diventammo “i due Pierini della nautica”. Un eufemismo per non dire che eravamo i due “scassac…”. Per quasi tre anni collaborammo intensamente: lui vice-direttore di Nautica che aveva sede a Roma, io come corrispondente da Milano dove c’era metà della nautica che contava: quasi tutti gli importatori di scafi e motori e, sui
laghi lombardi, a pochi chilometri di distanza, un congruo numero di cantieri. Cercò anche di farmi cooptare in redazione, ma mi rifiutai di andar a vivere nella capitale che odiavo, e tuttora odio, per personali e
antipatici ricordi d’infanzia.
Nel 1965 lasciai quella collaborazione: avevo profondi dissidi con la contabilità di quell’editore che non pagava mai… e passai alla diretta concorrenza. Ma questo non intaccò il nostro rapporto. Anzi. Ci sentivamo di nascosto spesso, come due carbonari. Ma poi, sulle pagine delle rispettive riviste facevamo battaglie bellissime, vivaci, mordenti. Crudeli. Ma sempre tese ad unico scopo: migliorare lo sviluppo della nautica da diporto. Ogni tanto ci vedevamo anche.
Quando qualche impegno di lavoro mi costringeva ad andare a Roma, dormivo a casa sua, in via Asmara così come lui, quando veniva a Milano, aveva sempre il letto pronto nel mio piccolo appartamento di via Chiossetto. Un anno ci fu un pasticcio: mentre entrambi eravamo fuori, nel suo appartamento romano andarono i ladri, rubarono tutte le sue e le mie macchine fotografiche e utilizzarono la mia valigia per portar via
la refurtiva… Fu complicato per me nascondere la verità ai miei editori: come fai a spiegare che, nonostante l’esclusività di firma che hai garantito, tu dormi a casa del responsabile di una testata “nemica”?
Poi anche lui, nel 1967, lasciò quella rivista “nemica” e, assieme a Claudio Nobis e a Fabrizio Ricci, inventò “Forza 7”: una testata per veri amanti del mare (quello vero), una rivista di formato piccolo (rispetto a
quanto esisteva allora sul mercato specifico), tutta in bianco e nero e con non moltissime pagine. Ma che pagine! E che idee.
Solo che Carlo, com’era suo stile, fece subito una bella frittata. Per avere le economie per creare questa pubblicazione, quei tre “ragazzi” avevano chiesto aiuto a Vincenzo Balestrieri e a Francesco Cosentino
che, insieme fra di loro, avevano strutturato il “Tornado racing team” per le gare offshore. Il ricco palazzinaro romano e il Segretario Generale della Camera dei Deputati sottoscrissero una fidejussione bancaria a
favore della novella piccola casa editrice…e Marincovich, fin dai primi fascicoli di “Forza 7”, li trattò come verità voleva. Denunciò l’aiuto esterno di una latta d’olio per i motori che aveva salvato Balestrieri da
un ritiro nella gara di Napoli (’68) e che il pilota aveva sempre negato eccetera eccetera. Scrisse che Cosentino non aveva fatto assolutamente una certa cosa di cui si vantava… In breve, i fidejussori, offesi da tanta
“libertà”, ritirarono la loro “garanzia bancaria” e, per la nuova rivista, ci furono immediatamente notevoli difficoltà economiche.
Carlo comunque non demorse e, dalle pagine del suo giornale, lanciò molte iniziative giornalistiche tese a conquistare un pubblico di lettori attento alle economie e veramente amante dell’andar per mare. Fra queste, l’idea e la possibilità di autocostruirsi barche in ferrocemento. Intendiamoci: niente di nuovo visto che i primi “natanti” realizzati in quel materiale risalgono addirittura al 1917 quando il cemento venne impiegato per costruire delle navi da trasporto per la marina degli Usa e che poi, nel 1942, il nostro Pier Luigi Nervi aveva già realizzato, con un composto da lui brevettato, un yawl da 12 metri, il “Nennele”. E, successivamente, nel ’49, anche la barca “Irene” da 165 tonnellate oltre a due prototipi per la Fao, utilizzati per la pesca sul lago Nasser, da costruire sul posto e senza l’impiego di manodopera specializzata: tutti progetti sfruttati in seguito con enorme successo commerciale in Cina ed in Russia alla fine degli anni ’50 e negli anni ’60. E visto ancora che, qualche anno dopo, lo stesso Nervi aveva anche fatto produrre, a San Benedetto del Tronto, una gran quantità di pescherecci d’alto mare. Sempre in ferrocemento.
L’iniziativa di Marincovich tendeva però a stimolare le costruzioni in proprio, diciamo “nel giardino di casa” ma l’idea ebbe tale successo che, nel napoletano, si creò addirittura un cantiere per questo tipo di imbarcazioni. Il primo prototipo, da noi chiamato “l’edicola” per le dimensioni e la pesantezza volumetrica dell’opera morta, lo collaudammo tutti assieme con una lunga crociera alle isole Pontine. Buttammo l’àncora a Ponza e andavamo poi a “cazzeggiare” al famoso bar “Duemila” dove, una giovanissima Stefania Sandrelli, giocherellava con Amanda, la figlioletta (avuta da Gino Paoli) e si riposava dalle fatiche dei suoi ultimi film, fra cui lo straordinario “Sedotta e abbandonata” del suo nuovo compagno, il grandissimo Pietro Germi.
Ricordo, anche oggi e con un certo disagio, la mattina che decidemmo di lasciare quel porto: decine e decine di àncore e relative catene si erano sovrapposte alla nostra che Carlo aveva giustamente “mollato” quasi
dall’altra parte dell’insenatura. Toccò a me, in quanto sub più esperto del gruppo, un massacrante lavoro in apnea e dentro quell’acqua lurida, piena degli scarichi organici (mi seguite?) di un centinaio di barche.., mentre Carlo e Fabrizio, sul ponte, eseguivano gli ordini che, fra una sommozzata e l’altra, impartivo loro: “Salpa. Alt. Molla un po’. Salpa ancora. Molla eccetera”. Si trattava di recuperare tutta la nostra catena sollevando di volta in volta quella delle altre barche e facendo passar sotto a quel coacervo di ferraglia, la nostra Bruce… Mi vendicai della orribile e fetida sfacchinata con uno scherzo “carogna”. La barca aveva i doppi comandi: uno all’interno della tuga e uno sul flying. Carlo, appena fuori dal porto, si era messo alla guida da quello superiore e io, di nascosto, contromanovravo da quello sotto. Lui decideva di andare a dritta e io gli facevo andare la barca dalla parte opposta, lui dava gas e io lo toglievo. Ad un certo momento sentii un festival di parolacce miste a imprecazioni pesanti: come dicono a Roma, “mi aveva sgamato” e, per salvarmi dalla sua furia, fu giocoforza lanciarmi in mare. Poi, una risata risolse il “duello”. Ci furono, naturalmente, molte stupide critiche a questa sua passione per il ferrocemento, un materiale considerato troppo povero e poco nobile per la nautica da diporto. Ma, come si suol dire, la madre degli stupidi è sempre incinta. Infatti basta ricordare che, di recente, il grande architetto Renzo Piano si è fatto “Kirribilli” che è la sua nuova barca a
vela da 60 piedi. In ferrocemento.
Ricordo un anno, era il 1968, che a Roseto degli Abruzzi si inventarono una gara offshore. Io non correvo ancora e così, dopo il via non c’era molto da fare se non aspettare che i prodi piloti traversassero l’Adriatico e arrivassero sulle sponde di Makarska, in quella che allora era ancora la Jugoslavia. Ce ne andammo in spiaggia. C’erano Fabrizio Ricci e la sua fidanzata Valeria Ciangottini, la nota attrice interprete del film “La dolce vita” di Fellini. Carlo se ne uscì con una proposta delle sue: “Valeria, tu devi fare un film che ti fa diventare miliardaria e con quei soldi ci compriamo l’Adriatico. Tutto. Lo picchettiamo e ci facciamo correre sopra solo chi decidiamo noi.” Valeria disse di sì (ma, purtroppo, quel film non le è stato ancora proposto, nda). Carlo, che era nato a Pescara (i suoi abitavano a Silvi), a pochi chilometri di distanza su quella costa abruzzese, sentiva quel mare assolutamente suo. Peraltro suo padre era dalmata, come ricorda il suo cognome, e grande amante del mare… di casa. Nella primavera del 1973 la sorte e il caso ci misero assieme per affrontare contemporaneamente l’esame di Stato e diventare “giornalisti professionisti”: con spirito leggero (campavamo di giornalismo, io da quasi quindici anni e lui da oltre venti, e lo Stato ci chiedeva di dimostrare la nostra “professionalità”), andammo alla prova scritta con la sua Vespa. Lui scelse il tema sociale. Io, per non espormi politicamente al giudizio di una commissione d’esame che era presieduta da un noto rappresentante della destra più destra, optai per la prova di grafica. Ci ritrovammo all’uscita di quell’immenso stanzone, sopra alla Stazione Termini, dove l’esame aveva avuto luogo e ce ne andammo in un bar a mangiare un panino e a parlare di barche. Correvo in offshore già da cinque anni ma la nuova stagione agonistica mi avrebbe visto impegnato come co-driver di “Arcidiavolo”, un progetto di “Sonny” Levi per Giorgio Tognelli, di estrema avanguardia che a Carlo interessava molto.
Anche lui aveva corso in altura. Era successo al Trofeo Napoli, nel 1972, organizzato con pochissimi mezzi e tantissimo entusiasmo da Alfredo Quinto. Fra gli scafi iscritti figurava una barca del milionario americano Bobby Rautbord, forse buon pilota ma del tutto “ignorante” delle nostre coste. Cercava un “esperto di navigazione locale”. L’organizzatore chiese a Carlo questa “collaborazione” e lui accettò con entusiasmo.
Nel 1950 aveva iniziato l’attività velica sulla classe Jole Olimpica ed era cresciuto nella classe Finn all’Hannibal di Monfalcone, la scuola dei grandi fratelli Pelaschier. Carlo amava la vela ma lui era uno di quelli per i quali il mare non è a spicchi: o tutto a vela o tutto a motore. Per lui il mare era mare: un’entità indivisibile. E infatti, per quella sua esperienza come pilota offshore scrisse poi un pezzo stupendo per “Forza 7”. Iniziava con
la sua consueta ironia: “Un pennarello in mano: è tutto quello che viene dato ad un navigatore offshore. E con un pennarello in mano mi sono ritrovato la mattina di domenica 16 luglio, un’ora prima della partenza
del Trofeo Napoli, gara di campionato mondiale.”, e spiegava che il pennarello serviva per disegnare sulla coperta della barca, davanti al posto di guida, la cartina del tracciato di gara: le distanze da un ceck point all’altro e i gradi di bussola che si dovevano tenere. Si incazzò con l’americano quando gli indicò che poteva passare tranquillamente in mezzo ai faraglioni di Capri perché c’erano fondale e larghezza a volontà e, invece, il riccone, che temeva per la sua barchetta, fece un giro larghissimo per evitare quel passaggio. Ciononostante quell’anno Rautboard vinse il titolo mondiale offshore.
Sempre nel 1972, Carlo ed io abbiamo fatto, assieme, una cosa importante. Mi ero stupito di come i nostri progettisti più affermati non fossero, allora, autorizzati per legge a “firmare” i loro piani di costruzione. Lo poteva fare solo un laureato in ingegneria navale. E ogni cantiere doveva quindi trovarsi un prezzolato e corruttibile “ing. nav.” per avere questa benedetta firma. La cosa, oltre che stupirmi, mi sembrava vergognosa e dalle colonne di “Mondo sommerso” lanciai una campagna per far cambiare questa disposizione. Marincovich si affiancò alle mie idee con i suoi articoli su “Forza 7” e verso la fine di quell’anno, al Salone Nautico di Genova, riuscimmo a mettere assieme quella ventina di personaggi che, stimolati da un veemente discorso di Carlo, diedero vita alla Aspronadi (Associazione Progettisti Nautica da Diporto). Era una pagina importante nella storia della nautica da diporto italiana.
Quasi contemporaneamente avevamo creato anche un’altra Associazione. Si chiamava AGIN (Associazione Giornalisti Italiani della Nautica) e raccoglieva tutte le firme del giornalismo specializzato. Segretario Generale era Franco Belloni, che aveva avuto l’idea iniziale ma Carlo ed io ne eravamo le “eminenze grigie” mentre l’onorifica carica di Presidente venne assegnata a Sergio Scuderi, il più abile diplomatico fra tutti noi. Nel 1974/75 ci fu poi l’esperienza di “Mangiare a terra”. L’idea era stata, se ricordo bene, di Belloni, noto buon gustaio, che aveva detto: “Perché non mettiamo assieme tutte le nostre esperienze e non realizziamo una guida ai ristoranti di costa dove uno, quando arriva con la barca, sappia già dove andar a mangiare senza avvelenarsi o suicidarsi per il conto?”. Così nacque quel libro, ancora oggi unico nel suo genere. Franco Harrauer ci rallegrò con le sue vignette (una delle quali raffigurava anche i tre autori). La Motomar (importatrice, allora, dei motori fuoribordo Johnson) comprò a scatola chiusa tutta la tiratura mentre la presentazione fu fatta al ristorante “da Lino” di Guido Buriassi, pilota offshore. Nella prefazione, Scuderi scrisse: “Franco Belloni, Carlo Marincovich e Antonio Soccol, tre giovani giornalisti della “vecchia guardia” in campo nautico: fra collaborazioni, redazioni e responsabilità non c’è, credo, oggi in Italia pubblicazione che si sia occupata seriamente di cose di mare e che non li abbia fatti, prima o poi, figurare in sommario….”. Era proprio vero.
Nel 1977, vivemmo insieme “L’avventura dell’offshore”. Era questo un libro “fortemente” voluto da Carlo Campanini Bonomi che, nel campionato del mondo delle gare d’altura aveva raccolto due secondi posti (1972 e 1975) e due titoli iridati consecutivi (1973 e 1974). Bonomi chiese a Claudio Nobis di coordinare l’edizione, Carlo Marincovich scrisse tutta la parte storica (dal 1894 alla seconda Guerra Mondiale), Fabrizio Ricci si concentrò sulla cronaca delle gare moderne (dal 1956 a tutto il 1975) mentre io scrissi una lunga appendice riguardante il comportamento e i risultati della Classe 2 e degli scafi con motorizzazioni diesel. Collaborarono inoltre, con consulenze varie, Attilio Petroni, John Crouse, Dak Pike e Antonella Ravazzolo. Con 142 foto in bn, 60 a colori e 10 cartine di percorsi di gara, il libro venne pubblicato da Mursia e, in materia, è tuttora l’unica “bibbia” italiana di quel periodo dell’offshore.
Negli anni a seguire ci furono alcuni episodi “privati” che ricordo con particolare piacere. Un giorno Carlo mi chiama e mi dice: “Dovresti farmi un favore personale: venire a Roma. Dalla mattina alla sera, basterà.” “A fare?” “ A testimoniare al Tribunale della Sacra Rota per l’annullamento del mio matrimonio” “E cosa dovrei dire?” “Solo la verità: che prima di sposarmi avevo pubblicamente dichiarato che non volevo figli”. Gli dissi di sì (mi chiedeva di dire solo la verità) e mi feci anche questa esperienza: piuttosto squallida, direi, visti gli interlocutori che ebbi in quella occasione, prelati della peggior specie… Quello stesso anno capitò che Sergio Scuderi volesse passare tutti assieme, nella sua casa del Circeo, la notte di Capodanno; ci invitò con la sua consueta ironia: “Portate cose rotonde che significano fortuna e denaro. Tipo caviale, per intenderci”. Accettai con allegria. Carlo, invece, rifiutò dicendo che aveva altri programmi inderogabili. Scoprii dopo che aveva passato quella notte in una fabbrica occupata per portare sostegno ai lavoratori impegnati nella difesa dei loro diritti: “Sono andato con un panettone e un fiasco di Chianti ed è stato bello”, garantì.
I problemi economici di “Forza 7” erano però tali che i tre eroici editorigiornalisti furono costretti a gettare la spugna e a cedere la testata. Per tutti e tre iniziò una carriera all’interno dei quotidiani: Nobis e Marincovich, nel 1979, entrarono a “la Repubblica” mentre Ricci andò a “Il Messaggero”. Ebbero grandi successi personali (la scuola dei mensili specializzati è, senza dubbio, la migliore per la professione giornalistica). Nobis diventò responsabile del supplemento “Auto & motori”, Carlo inviato speciale per la Formula 1 e le grandi sfide veliche della America’s Cup mentre Ricci, alcuni anni dopo, andò in pensione addirittura con la carica di vice-direttore… Mica male per essere tre “sfigatelli” cui un binomio di megalomani aveva tagliato una fidejussione perché non sufficientemente “devoti&ossequiosi”.
Nel 1980 io avevo una mia rivista, “Sesto continente”. Non prettamente nautica. Si occupava di mare a 360°. Un giorno mi chiamarono a Cuba e mi chiesero di “dare una mano” al futuro di quell’isola tanto tormentata,
organizzando una manifestazione subacquea che facesse conoscere quei fondali così vergini e stupendi. E facesse arrivare un po’ di turismo. Mi inventai un “evento” che si chiamò “Photosub – Omaggio al Caribe
di Cuba” al quale invitai trenta fra i più importanti fotografi subacquei del mondo, una dozzina di televisioni e una quarantina di giornalisti. Fra gli italiani c’era anche Carlo Marincovich. Scrisse un bel pezzo sul suo
quotidiano ma soprattutto, appena finita la manifestazione, scappò a Cojimar, il paesino di pescatori a pochi chilometri da La Habana dove Hemingway aveva ambientato il suo romanzo “Il vecchio e il mare” e
qui Carlo aveva trovato e intervistato Gregorio Fuentes de Betancourt, il marinaio dello scrittore americano e del suo sportfisherman “Pilar” che sarebbe poi morto, il 14 gennaio 2002, all’età di 104 (centoquattro)
anni. Mi regalò quella bella intervista per la mia rivista.
Scriveva bene, Carlo. Secco e chiaro. E preciso. Con una determinazione nel documentarsi che sfiorava il fanatismo. Un giorno, per esempio, mi chiamò al telefono: “Domani sono a Milano, ci vediamo?” “Sì. Come mai vieni?” “Devo andare nella chiesa di San Marco.” “Ma è a Venezia…” “No, non la basilica, la chiesa, quella costruita attorno al 1254 da frate Lanfranco Settala, nel luogo in cui già esisteva una chiesa dedicata al Santo, in segno di riconoscenza verso i veneziani che avevano aiutato i milanesi a ricostruire la città dopo le distruzioni del Barbarossa.” “Ah, e che ti serve in quella chiesa?” “Beh, a parte che è interessante perché, tra i suoi fedeli, ebbe i giovanissimi Martin Lutero, Wolfgang Amadeus Mozart e Catalani, oltre a Giuseppe Parini, in realtà io devo controllare un dettaglio su un dipinto. E’ per un articolo che sto scrivendo sulla navigazione…”. Un viaggio da Roma a Milano per controllare un dettaglio su un quadro, non so se mi spiego.
Poi, la vita un po’ ci allontanò facendoci inseguire, su fronti differenti, il nostro dovere di cronisti. Ma nel 1985 gli chiesi aiuto: mi ero perso per mare (Atlantico) l’amico Alex Carozzo che partecipava alla “Minitransat
per due” con una sua barchetta in alluminio. Da giorni nessuno ne aveva notizie e sembrava che gli organizzatori fossero poco interessati ad avviare le ricerche. Carlo fece un pezzo di fuoco su “la Repubblica” che scosse le varie ambasciate che scossero eccetera eccetera, sapete… la solita catena di responsabilità, e l’indomani uno stuolo di aerei partì alla ricerca dell’ipotetico naufrago il quale, invece, aveva solo rotto i due timoni del suo scafo e governava con le vele, avanzando con la comprensibile lentezza.
Nel novembre del 1991 ci ritrovammo a Ilwaco, sul confine fra gli stati di Washington e dell’Oregon, negli Usa, ad aspettare l’arrivo di Gerard D’Aboville che stava per concludere la sua traversata a remi, in solitario, dell’Oceano Pacifico. Le correnti avevano dirottato la piccola barchetta del francese in una zona scomodissima da affrontare a remi e, oltre a tutto, dopo mesi di fatiche allucinanti: il Columbia River crea, infatti, in quell’area delle secche di sabbia che provocano un’onda di risacca di dimensioni impressionati. Per questo, le ultimissime miglia, Gerard D’Aboville le aveva coperte al traino di uno scafo a motore. Come sempre senza peli sulla lingua, il 22 novembre su “la Repubblica” Carlo scrisse:
“Finisce così in vacca un’ avventura che nulla toglie ai meriti di D’Aboville e di chi lo ha sostenuto nel realizzare questa impresa massacrante. Il rematore solitario, che già undici anni fa aveva traversato l’ Atlantico in 70 giorni da solo, era partito da Tokyo l’ 11 luglio tra mille contrattempi. Tutte le radio e i telex che gli avevano installato a bordo non funzionavano. Partì lo stesso col maltempo e dopo una settimana infernale contro vento e contro corrente avvistò terra. Rimase stupito perché sulla sua rotta non dovevano esserci isole. Infatti, era il Giappone. Cioè, era tornato indietro. Col morale a pezzi si rimise ai remi incontrando da quel giorno una depressione dopo l’ altra. Si è rovesciato 37 volte rimanendo chiuso nel suo guscio dove sballottava come una pallina. E mentre sballottava doveva darsi da fare con alcune poderose leve per azionare le pompe di bordo. Per raddrizzare la barca era costretto a svuotare i serbatoi di zavorra e riempire altri serbatoi. Poi tornava all’ aperto e si rimetteva ai remi. Quando andava a dormire, la barca spinta dalle enormi onde, partiva in surfing e poi all’ improvviso infilava la prua nell’ onda successiva prendendo una frenata spaventosa. E ad ogni frenata lui andava a sbatter la testa contro la paratia della cabina. Una parola, dormire in queste condizioni. Ma la necessità fa virtù anche per i navigatori più esperti e così D’ Aboville un giorno scoprì che gli conveniva dormire all’ incontrario almeno la frenata l’ avrebbe presa con i piedi e non più con la testa. Le cose cominciarono a migliorare finché un giorno la barca si rovesciò con lui appeso fuori che a prezzo di sforzi sovrumani cercava di risalire a bordo e raddrizzarla…”
Poi un giorno d’estate (il 19 luglio) del 2005 qualcuno, in tempo reale, mi informò della morte di Alain Bombard. Cercai Carlo al cellulare per dirglielo: come me, era un ammiratore di quell’uomo straordinario e, quando negli anni Settanta, la Garzanti si rifiutava di ristampare il suo fondamentale libro “Naufrago volontario”, Carlo aveva cercato di mettere assieme una “cordata” di gente intelligente per rieditare quel volume. Anche lui come me lo riteneva indispensabile per chiunque andasse in qualsivoglia maniera per mare. La cordata non andò in porto perché di gente intelligente ce n’è sempre troppo poca e perché Garzanti fu sorda ad ogni richiesta. Per fortuna, nel 2003, con straordinaria sensibilità, Magenes Editoriale, era riuscita a rieditarlo. Carlo mi ringraziò molto per quella sia pur triste informazione, mi disse che ormai era in pensione e che quindi collaborava solo da esterno a “la Repubblica” e per le tematiche che più lo appassionavano: l’America’s Cup e la F.1. “E che fai?” gli chiesi. “Me ne vado per mare con Andrea Vallicelli che abita qui vicino a me a Lanciano”. “ A vela?” “No, con il suo vecchio stupendo Boston Whaler, una barca adorabile”.
Il 3 agosto di quell’anno scrisse una intera pagina di “la Repubblica” per ricordare il grande medico francese. Ecco parte del suo testo:
“Pochi giorni fa è morto a 80 anni nell’ ospedale militare di Tolone, un medico navigatore rimasto famoso nel mondo delle grandi avventure di mare per una impresa eccezionale. Nel 1952 dalla rada di Las Palmas nelle Canarie si lanciò nell’ Oceano Atlantico con un gommoncino di 4 metri e una veletta primordiale che alzava su un remo messo in verticale. Un pazzo? Beh, il mondo dei sette mari è sempre stato pieno di pazzi e dunque non ci sarebbe da meravigliarsi. Ma il dottor Alain Bombard non era pazzo. Si stava lanciando in una impresa «impossibile» per dimostrare che un naufrago può sopravvivere a lungo in mare nutrendosi di ciò che il mare offre. Le cronache e i naufragi che lui aveva attentamente studiato mentre lavorava come biologo ricercatore all’ Istituto oceanografico di Monaco, gli avevano suggerito l’ idea che un naufrago non avesse bisogno di costose e complicate zattere di sopravvivenza ma piuttosto di una buona conoscenza del funzionamento della macchina umana e del suo rifornimento giornaliero. (…) Non avendo a bordo altro al momento della partenza si era cibato davvero di plancton, pesce crudo, spremuta di pesce e acqua di mare. «Bisogna berne poca – ha raccontato poi per anni e anni a chiunque gli poneva la domanda – e senza mai arrivare alla disidratazione». (…) Non sappiamo bene se i naufraghi abbiano seguito il suo consiglio di bere acqua di mare, ma Bombard resta e resterà un caposaldo dell’ avventura marinara. Ha fatto sognare tantissima gente e altrettanta gli è grata per avere in un certo senso e senza volerlo «inventato» il gommone così come lo conosciamo oggi. Buon vento, dottor Bombard.”
Come ho detto, negli ultimi anni scriveva soprattutto di F.1. Fabrizio Bocca, ricordandolo su “la Repubblica” ha scritto:
“Marincovich tifava Ferrari, ma sapeva essere critico, duro e talvolta spietato, come nessun altro. Soprattutto negli anni 80 quando la Rossa non ne azzeccava una. Memorabile un suo articolo del 1987: «La Ferrari di latta». Si mise a elencare tutto ciò che si sfasciava, pezzo per pezzo. Scatenò il finimondo a Maranello. Disincantato, scettico per natura scriveva di getto, rapidissimo.”
Già, di getto come in uno dei suoi ultimi articoli (8 settembre 2008, Gran Premio del Belgio) che si concludeva con queste parole:
“Raikkonen, cosa ha fatto ieri di grandioso per restare a pieno diritto il n.1 della Ferrari a scapito di quel nullafacente di Massa che inanella vittorie una dopo l’ altra? Niente. Anzi, peggio: dopo la scorciatoia di Hamilton nella foga di risorpassarlo è andato a sbattere contro un muro. E’ sano e salvo ma ha perso dieci punti mentre Massa e Hamilton procedono nel loro viaggio verso il titolo. Basterà il Gp d’ Italia a Monza per farlo resuscitare? Non sarebbe meglio pensare alla sua sostituzione col principe della Asturie, Fernando Alonso che non beve e ha quattro attributi grossi così?”
Non so se vi rendete conto di cosa possa significare in quel mondo dare, dalle pagine del più diffuso quotidiano italiano, dell’ubriacone a un campione del mondo ancora in carica. Eppure Carlo rappresentava perfettamente l’opinione pubblica e quello che la gente pensava. E di questa sua straordinaria capacità si faceva arma: di difesa e di attacco.
Il 18 novembre 2008, Carlo Marincovich se n’è andato. Negli epicedi, apparsi sui quotidiani e sul web, molti gli hanno augurato “buon vento”. Si usa per la gente di mare. Io ho perso un amico. La nautica italiana un raro esempio di giornalista serio, onesto, esperto e molto competente. Patrizia ha perso un marito fantastico e speciale. L’umanità un uomo difficile e scomodo perché “troppo” intelligente.
www.altomareblu.com – 31 gennaio 2009
di ANTONIO SOCCOL
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